Mia nonna alla fine della prima guerra mentale era partita dal Montello, nell’alta provincia di Treviso, per andare a lavorare al manicomio di San Servolo a Venezia. Oggi quello spazio è divenuto un’oasi di pace per cercare di esorcizzare l’inferno che fu prima che la mal amministrata Legge Basaglia aprisse i cancelli al mondo di reietti che affollava quelle istituzioni chiuse. Nonna Irene, da tutti conosciuta come Ernesta, aveva allora forse 19 anni quando assisteva a violenze di tutti i tipi, soprattutto somministrate da psichiatri e altri infermieri, la più innocua delle quali era l’immersione e la relativa permanenza nell’acqua ghiacciata. C’era in particolare una donna che era molto aggressiva, ma non con lei:

«A me lei voleva bene e mi diceva “Ragazzina tu sei gentile non come quei disgraziati. Ascolta me: scappa di qui, vai via. Ascoltami” Poi passavano gli psichiatri e cambiava aspetto, diventava grintosa e li appellava con nomignoli ingiuriosi, come quando li chiamava dicendo: “Ti! Pien de formai mental!”»

Quando mi laureai andai a fare il borsista, oggi si direbbe lo stagista, in una comunità psichiatrica per adulti. Era passato un decennio dalla Basaglia e quei posti ospitavano reduci dell’ospedale psichiatrico in una condizione di vita certamente migliore ma ben lungi da un vero inserimento sociale come si andava raccontando. Ne avrei tanti di aneddoti da raccontare di quel periodo, come di quel ragazzo che, dopo aver perso il padre, si era messo in testa di sostituirlo facendo l’uomo di famiglia mimando una certa autorità. Aveva ricevuto una alquanto improbabile diagnosi di debolezza mentale a fronte della quale cercò di ribellarsi diventando ambidestro in pochi mesi. Ricordo che lavorai bene per convincerlo a riprendere gli studi per reinserirsi gradualmente.

Il direttore dell’istituzione chiusa anche se apparentemente aperta amava sostenere con una certa sicumera, dopo aver suggellato la sua competenza dicendo con inequivocabile accento che: «È ciutta quescione di ciansfert e conciociansfert. L’ha detto Freud, l’ha detto “Young” (pron. Iang), l’ha detto la Klein e l’ha detto LA Sullivan!»

Harry Stack Sullivan il famoso “LA Sallivan”

aggiungeva che chi entrava nelle “sue” comunità non poteva uscirne prima di almeno tre anni. Resistere in un ambiente dove i più veterani fra i pazienti stupravano le reclute, spalmavano i muri con le proprie feci o si tagliavano il pene schizzando sangue e ridendo sonoramente non richiedeva tre anni ma solo pochi mesi per trasformare un giovane recuperabile in un rassegnato “utente”.

Come fece poi mia nonna anch’io me ne andai, perché fare un lavoro inutile non potendo farne uno perbene era sempre meglio di accondiscendere a far del male al prossimo, e visto che ogni tentativo di fare funzionare quel sistema sfumò in una lite furibonda con il dotto primario alto rappresentante ufficiale della categoria professionale, accettai il suo invito: «Ponti d’oro a quelli che se ne vanno».

Oggi ho incontrato su Facebook una citazione riferita da un’amica di uno dei non molti psichiatri capaci di mettere in discussione tutto ciò che, riferendo del periodo formativo nei manicomi pre-basagliani, scrive:

“Quando varcai la porta d’ingresso, mi fu subito indicata una porta chiusa e con pezzo di plexiglas leggermente opacizzato cui assolutamente non dovevo avvicinarmi. C’era una donna che mi mostrò cosa significava essere in fase maniacale, un altro mi fece vedere quanto potesse essere difficile distinguere realtà e sogni, un altro mi mostrò la paura di morire. Mentre prendevamo un caffè in un momento di pausa, disse una frase che mi restò fissa in mente – Hai mai fatto caso che tanti di loro hanno iniziato a stare male dopo la prima grande delusione d’amore?
Non so a cosa si riferisse di preciso o cosa l’avesse colpita effettivamente, sta di fatto che quello che a me restò in testa fu che in effetti c’era stato un momento prima e fuori dalla clinica anche per loro, in cui avevano avuto desideri simili ai miei. Di avere un amico sincero, qualcuno che li amasse per quelli che erano, di farsi la propria strada.
Eravamo tutti nella stessa clinica e mi chiesi cosa aveva fatto la differenza fra me e loro, per cui io non avevo perso la mia libertà.
L’ultimo giorno di tirocinio un coetaneo ricoverato da poco e che faceva sempre un sacco di casino, mentre ero in sala a salutare tutti, si zittì di colpo e mi disse “Vedi di non farti trovare qua dentro”.
Mi sono sempre chiesta se fosse la sua invidia nel vedere in me qualcosa che non poteva avere (la libertà) o se avesse intravisto qualcosa di sinistro nel mio sguardo (…)
Pochi giorni dopo la morte della Dott.ssa Capovani, il Ministro Schillaci ha istituito il Tavolo tecnico per la salute mentale. E’ composto prevalentemente da psichiatri e – correggetemi se sbaglio – uno psicologo.
Forse si poteva fare qualcosina di più… ci tocca sperare in un maggiore coinvolgimento nei gruppi di lavoro che il decreto prevede possano essere istituiti”
M. Cozza, Psichiatra

Giovani che si innamorano, si lasciano sbandando nella grande delusione, sbarellano, si ubriacano nelle piazze “cool” della città, si fanno di chimica varia e di fumo OGM, decantano l’ultimo vaccino che si sono fatti… siete tutti potenziali utenti o potenziali persecutori di un “Truman Show” dove la realtà apparente la vedi dalla finestra appannata.

Il mondo pilotato dai media, di chatGPT, dalle privatizzazioni, dal pensiero unico globalizzato… presto tutto questo mondo sarà stato reso un grande manicomio invisibile al suo stesso interno, un terribile Truman Show infernale, perché chi pensa di esserne fuori, i “brillanti”, ma gli stessi “normali” stanno guidando la locomotiva fischiante diretta spedita ai cancelli del futuro.